Esercizio del diritto di prelazione e di riscatto agrario e richiesta di risarcimento per asserita violazione del temine di ragionevole durata del processo
Risaputa è l’esistenza di condanne emesse nei confronti dello Stato Italiano per violazione del termine di ragionevole durata dei procedimenti giudiziari idonea a procurare un danno alla parte in causa, ossia – in via generale – alla parte vittoriosa del procedimento che non ha potuto godere in tempi congrui del diritto dalla stessa vantato, così come accertato nei vari gradi di giudizio.
Oggetto di domanda di risarcimento ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, avente ad oggetto – tra le altre disposizioni – la “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo”, fu anche un procedimento di riscatto agrario ai sensi della legge 590 del 1965 che ebbe una durata – nei soli primi due gradi di giudizio – di quasi diciassette anni (dal 3 novembre 1988 al 30 marzo 2005).
La parte riscattante, alla luce dell’accoglimento delle proprie ragioni e vista la durata del procedimento con conseguente protratta impossibilità di entrare nel pieno possesso del fondo oggetto di giudizio fino alla definizione del procedimento, si rivolse alla Corte di Appello di Catania chiedendo, tra l’altro, il ristoro del danno patrimoniale subito per la irragionevole durata del processo, di cui fu parte, innanzi al Tribunale di Catania ed alla Corte di Appello di Caltanissetta ai sensi della normativa posta a tutela della ragionevole durata dei processi di cui sopra.
La Corte di merito, pur ritenuta fondata la doglianza della irragionevole durata del processo e liquidando una esigua somma a titolo di ristoro per ogni anno di durata del procedimento, respingeva la domanda di equa riparazione per il lamentato danno patrimoniale derivante dalla perdita di opportunità per la prolungata indisponibilità dell’immobile correlata alla irragionevole durata del processo.
Avverso il decreto emesso, il riscattante proponeva ricorso in sede di Cassazione contro il Ministero della Giustizia ritenendo errata la quantificazione del danno liquidato per l’eccessiva durata del processo e – per quanto ora interessa – il rigetto della domanda di risarcimento del danno patrimoniale conseguente alla prolungata indisponibilità del bene.
La Suprema Corte, esperito il preliminare vaglio di ammissibilità del riscorso ed esaminati gli atti, con Ordinanza n. 1793 del 23 gennaio 2009, ha rilevato che l’impugnazione proposta per il mancato riconoscimento dell’indennità per lunga indisponibilità del fondo difettava, nel caso sottopostole, della necessaria dipendenza causale diretta ed immediata, quanto esclusiva, del danno prospettato dal ritardo addebitabile all’apparato dello Stato, di fatto dissentendo dalla interpretazione data dalla ricorrente in merito alla domanda di riscatto agrario.
Richiamando il costante e consolidato indirizzo della Suprema Corte medesima, infatti, venne ribadito che il credito indennitario patrimoniale configurato dalla L. n. 89 del 2001 era tassativamente correlato alle sole ipotesi nelle quali il processo – nella sua irragionevole durata – sia la fonte immediata e diretta del danno ricevuto dalla parte del processo stesso, così escludendosi dal ristoro tutti i danni patrimoniali correlati all’indebita resistenza in lite od all’indebita proposizione di domanda da parte dell’avversario nella lite stessa, trattandosi di voci di danno il cui ristoro può e deve essere richiesto, nello stesso giudizio od in altro autonomo, dal danneggiato alla parte che con la sua resistenza od azione tale danno abbia cagionato (cfr. Cass. n.ri. 9909/08, 23756/07; 5213/97; 2250/07; 21020/06; 1094/05).
Nel nostro caso, tuttavia, l’impossibilità di usufruire del fondo in tempi ragionevoli, lungi dall’essere diretta conseguenza della irragionevole durata del processo, fu conseguenza dell’illegittima condotta posta in essere dalla parte resistente (acquirente retrattato), e quest’ultima è la vera causa – diretta – del prolungamento del procedimento. Di conseguenza, solo nei confronti di tale ultimo soggetto (retrattato)potranno – secondo la Cassazione e ricorrendone i presupposti – essere avanzate richieste di risarcimento per il danno che la sua indebita resistenza in giudizio ha causato.
È pur vero, infatti, che il riscattante non ha titolo alcuno di pretendere dal retrattato la consegna dei frutti e/o la corresponsione di un’indennità a compensazione del mancato godimento del fondo per tutta la durata del processo e così sino al momento in cui la sentenza sia divenuta irrevocabile, ma la Suprema Corte precisa che è del pari vero che, proprio in quanto il diritto di proprietà insorge solo in conseguenza dell’irrevocabile statuizione sulla domanda, deve essere riconosciuto al soggetto leso dall’indebita resistenza in giudizio della controparte un mezzo attraverso il quale vedere risarcito il danno medio tempore patito e conseguente alla perdita di opportunità di utilizzazione del fondo.
Qualora, infatti, la durata irragionevole del giudizio sia diretta conseguenza di tali comportamenti viziati da malafede o colpa grave, ossia svelatamente volti al mero scopo di ritardare la definizione del giudizio che lo vedrebbe innegabilmente soccombente, è riconosciuta nel codice di rito al soggetto leso la facoltà di agire per il ristoro dei danni per responsabilità aggravata ai sensi dell’articolo 96 c.p.c., ponendoli a carico della parte che li abbia direttamente e consapevolmente provocati.
Stessa considerazione in merito alla sanzione indennitaria può essere svolta anche nei confronti dell’alienante il fondo che con la sua condotta ha reso necessario per il prelazionario agire in giudizio per il riscatto.
Per onere di completezza, occorre precisare che la Suprema Corte ha chiaro quale sia il discrimine e quali i presupposti per la proposizione, alternativamente, di una domanda di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, ai sensi della l. 89/2001, ed una domanda di risarcimento del danno patrimoniale che, seppur indirettamente condizionato dalla durata del processo, è direttamente conseguente all’indebita resistenza in giudizio della controparte che è sanzionabile, ai sensi dell’articolo 96 c.p.c., qualora abbia posta in essere la predetta condotta solo per procrastinare la definizione del procedimento.
Avvocato Chiara Roncarolo
Avvocato Maurizio Randazzo
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