Risoluzione del contratto di affitto per grave inadempimento: relazione tra le condizioni di proponibilità della domanda e contenuto della contestazione

In caso di grave inadempimento del conduttore – soventemente dovuto al mancato pagamento dei canoni di affitto – il Legislatore ha previsto, a tutela del concedente, la facoltà per quest’ultimo di chiedere in via giudiziale la dichiarazione di risoluzione contrattuale, in forza del disposti di cui all’articolo 5 l. 203/82, finanche nei casi in cui il contratto fosse stato stipulato in deroga ai sensi dell’articolo 45 della medesima legge.

Di contro, ai fini del corretto svolgimento del procedimento di risoluzione, è fatto obbligo all’attore di procedere nel rispetto di termini e disposizioni a tutela – questa volta – del conduttore.

Nel medesimo articolo 5, comma 3, l. 203/82, è previsto, infatti, quale condizione di procedibilità della domanda di risoluzione, l’onere in capo al concedente di procedere alla formale messa in mora dell’affittuario, mediante invio di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, specificando gli addebiti mossi all’affittuario così da consentire allo stesso di sanare le inadempienze entro tre mesi dal ricevimento dalla comunicazione, evitando così l’instaurazione del giudizio (cfr. Cass. 29 dicembre 1997, n. 13089).

Qualora il debitore-affittuario, entro tale termine, provveda al pagamento integrale del dovuto verranno meno i presupposti per la richiesta di risoluzione contrattuale stante l’intervenuta sanatoria della morosità, e ciò nonostante il grave ritardo nel pagamento.

Come anticipato, la previsione di un termine in sanatoria configura una deroga in favore dell’affittuario al principio della parità di trattamento delle parti processuali, così introducendo un’eccezione alla regola generale di cui all’articolo 1453 c.c., secondo la quale una volta instaurato il predetto procedimento giudiziale – meramente dichiarativo della già intervenuta risoluzione – non è più ammesso l’adempimento tardivo.

A tale adempimento si affianca, senza tuttavia sostituirsi in quanto previsione autonoma avente finalità ed ambito differenti rispetto alla contestazione, l’ulteriore condizione di procedibilità relativa all’esperimento del tentativo di conciliazione di cui agli articoli 11 d.lgs. 150/2011 ed articolo 46 l. 203/82, da compiersi dinanzi al Settore agricoltura della Regione competente, quale soggetto terzo ed estraneo ai fatti idoneo a facilitare la composione – anche in via transattiva – della vertenza.

Sul punto, con sentenza del 19 settembre 2014, il Tribunale di Mantova, in contrapposizione all’orientamento di cui alla pronuncia delle Sezioni unite della suprema Corte di cassazione n. 633 del 1993 (che aveva composto il precedente contrasto), ha ritenuto che, proprio in considerazione del diverso scopo, nonché del diverso ambito in cui sono chiamate ad operare le predette norme, gli oneri di cui all’articolo 5 l. 203/82 possano ritenersi adempiuti anche qualora il tentativo di conciliazione venga svolto prima che sia decorso il “termine di grazia” per la sanatoria dell’inadempienza.

Seguendo tale interpretazione, al fine della decorrenza del termine di cui all’articolo 11 D.Lgs. n. 150/11 non sarà quindi necessario attendere il decorso del termine per la sanatoria, seppur anch’esso inerente la fase pregiudiziale, di cui all’articolo 5 l. 203/82.

Ciò premesso, occorre rilevare che il rapporto di coesistenza delle due condizioni di procedibilità è già stato disciplinato dalla giurisprudenza, la quale, ha sancito che la comunicazione di contestazione (art. 5) dovrà necessariamente precedere la richiesta di convocazione per l’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, posto che quest’ultima trova – inevitabilmente – giustificazione solo nel caso in cui la contestazione scritta del concedente non abbia sortito effetto alcuno nei termini imprevisti ex lege (cfr. Cass., S.U., 19 gennaio 1993, n. 633; Cass. , 29 dicembre 1997, n. 13089; Cass., 15 gennaio 2001, n. 503).

Nel caso oggetto di giudizio innanzi alla Sezione agraria del Tribunale di Mantova, il Collegio giudicante ha ritenuto di discostarsi dalla pronuncia della suprema Corte adducendo che l’adesione ad un’interpretazione giurisprudenziale che avalli la tesi della necessaria – infruttuosa – decorrenza del termine di grazia prima di poter richiedere l’esperimento del tentativo di conciliazione comporti conseguenze temporali e materiali troppo gravose per il concedere.

In quest’ultimo caso, infatti, il concedente verrebbe gravato non solo di un ingiustificato – e poco tutelante – aggravio di tempi di procedura dovendo attendere il decorso di ben due termini consecutivi prima di poter instaurare il giudizio, a cui si aggiungeranno i tempi di svolgimento vero e proprio, ma anche degli eventuali danni derivanti dal mancato rilascio spontaneo dei terreni da parte del conduttore moroso.

Il procedimento giudiziale di risoluzione del contratto potrà, secondo tale orientamento, essere instaurato solo una volta decorso inutilmente il termine trimestrale per la sanatoria ed eperito con esito negativo il tentativo di conciliazione di cui all’art. 46 l. 203/82 oppure decori sessanta giorni dall’invio della raccomandata di cui al medesimo articolo senza che sia giunti ad una definizione, quandanche con verbale negativo.

Di contro, l’esperimento del tantino di conciliazione successivamente alla ricezione della contestazione da parte del concedere, ma all’interno dei novanta giorni, permetterebbe di tutelare maggiormente quest’ultimo, non escludendo inoltre il vantaggio che potrebbe derivare ad entrambe le parti dalla definizione in sede conciliativa di ogni vertenza, a seguito del confronto costruttivo delle parti all’interno di un ambiente “protetto” e di “settore”.

Il Collegio di Mantova ha, altresì, avuto modo di porre la propria attenzione sulla validità di una comunicazione di contestazione che, sebbene specifica nell’indicazione degli addebiti mossi all’affittuario e nelle richieste conseguenti, indichi un termine di adempimento del debito inferiore ai tre mesi concessi dalla legge.

La Suprema Corte, con risalente ed ormai consolidata giurisprudenza, richiamata anche dal Collegio medesimo e posta a fondamento della decisione assunta sulla validità, ha precisato come la comunicazione di cui all’articolo 5 l. 203/82 – purché completa degli ulteriori requisiti previsti dalla normativa – non debba necessariamente contenertene una diffida di pagamento nei termini previsti dal legislatore per la sanatoria. La facoltà – discrezionale – del conduttore di sanare il proprio debito nei termine di tre mesi è, infatti, prevista dalle legge stessa ed il “termine di grazia” non potrà, pertanto, essere revocato o qualsivoglia ridotto dal concedente (cfr. Cass., Sez. III, 13 ottobre 1994, n. 8378).

All’atto pratico, qualora la raccomanda di messa in mora contenesse una richiesta di sanatoria della morosità entro l’ipotetico termine di trenta giorni dal ricevimento ed il conduttore procedesse al pagamento dell’intera somma entro i tre mesi dal ricevimento della stessa, verrebbero in ogni caso meno i presupposti per la richiesta di risoluzione del contratto e la morosità integralmente sanata.

La non modificabilità del termine di grazia e l’effettiva tutela in favore del conduttore sono confermati, di fatto, da quanto sopra esposto in merito all’azionabilità della domanda di risoluzione contrattuale, posto l’esperimento del tentativo di conciliazione, solo una volta decorsi tre mesi dal ricevimento della comunicazione di cui all’art. 5 l. 203/82.

Non avrebbe, infatti, ragion d’essere il riconoscimento della validità e dell’efficacia della previsione di un termine per la sanatoria inferiore a quello previsto ex lege, quando entrambi gli orientamenti relativi al tempo di possibile instaurazione del tentativo si conciliazione, prevedono che il giudizio di risoluzione contrattuale non potrebbe in nessun caso essere instaurato prima del decorso dell’intero termine trimestrale per la sanatoria.

Avvocato Chiara Roncarolo

Avvocato Maurizio Randazzo

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